Coccinelle
Mi sorprendo spesso a razzolare in un passato remoto. Schizzano scaglie e pietruzze dei ricordi e, tra di esse, la livrea colorata di qualche amata coccinella.
Ne osservo una adulta che si muove con indolenza. Quelle macchiette bianche sul muso le danno, e se provo a toccarla apre la corazza e stende le alette. La seguo degli occhi quando si appropria dei miei pensieri, spicca il volo e li trasporta al villaggio dell’altopiano distante pochi chilometri dalla masseria:
Fiera bestiame! Io sedicenne.
Finalmente l’avevano consentita per il dodici di ogni mese, in una frazione immersa in un mondo di contadini e piccoli allevatori, evitando marce lunghe e faticose a chi voleva vendere il bestiame e liberandola dal sacro che la dedicava alla festa del santo patrono di tale o talaltro agglomerato urbano.
La dinamica di questi giorni di mercato erano spesso tipi come don Alfio a imprimerla. Lui, imponente sui cinquanta inoltrati, borsellino e sigaro d’oltre oceano. Allevatore, con rinomate macellerie sparse in diversi grossi centri, se le stalle in quel di Aci (CT) lo richiedevano, sguinzagliava il sensale conosciuto nella zona, comprava senza troppi tentennamenti se l’animale gli conveniva e saldava sempre in contanti.
… fisarmonica, forse ereditata da un antenato, vecchio berretto siciliano, piccolo, scuro di pelle, smunto e quasi trasandato, bretelle. Età indefinibile ma avanzata, prendeva posto su un trespolo di legno a qualche decina di centimetri dal suolo, a ridosso di quello che una volta era stato un passo carraio ormai “sbracato”. Sebbene tra la polvere, là si sentiva al sicuro dagli animali che transitavano sotto i bastoni dei contadini, addentrandosi nel prato: un foro boario selvaggio.
Lui dallo strumento estraeva un centinaio di note melanconiche, una geremiade biblica. Come la risacca, le note accompagnavano indifferenti gioia, tristezza, tresche o avventure. In un continuo ripetersi, cambiavano sì le poche parole conosciute ma non il suono. Il tono dell’elegia ingoiava senza strozzarsi i soggetti più disparati:
“Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda e iu ca sugnu bedda nun mi potti marità” (Si maritò Rosa, Sarina e la Seppina e io che sono bella non mi sono potuta maritare).
La nenia ripetitiva cullava nel sottofondo contrattazioni, dialoghi e dispute degli astanti che non prestavano orecchio alle parole:
“E sienti Pippinedda tu va ‘nda la cummari ca idda t’a parrari …”!
(Ascolta Giuseppina, vai dalla comare che deve parlarti …). Si tratta qui di un’altra Giuseppina, una ragazzina a cui la madre raccomanda di recarsi dalla comare per non essere testimone scomoda e la comare …, una mano lava l’altra “ … t’a dari tanti cicci e tanti cosi aruci” (… deve darti tante caramelle e dolciumi).
Ma questa Pippinedda, a disagio per la presenza di un estraneo in casa, si reca dal padre:
“Papà, papà c’è n’uomminu ca joca ca mamà.” (Papà, papà c’è un uomo che gioca con mammà). Il padre risponde:
“E sienti Pippinedda, sienti chi t’agghia a diri, ca quannu veni s’uomminu ma veniri a ciamà” (Ascolta Giuseppina, ascolta quello che ti dico, che quando arriva quest’uomo devi venirmi a chiamare).
Il nostro trovatore non aggiungeva altro.
Che nella Sicilia sanguigna le corna restassero privi di epiloghi, era ed è da ritenere strano. Ma a lui non interessava. Quello era compito di cantastorie di professione che si esibivano con la chitarra su un palco improvvisato. Lui traghettava la sua nenia con monotona indolenza sullo spiegazzo del mantice, polmone usurato dello strumento, in attesa che i passanti di ritorno dall’osteria, lasciassero tintinnare qualche moneta nella gamella vuota accanto. Un eventuale biglietto portava le impronte del don Alfio.
Estate! Il mio razzolare non si ferma; le coccinelle sono attive e si arrampicano volentieri sugli steli mietuti. Le osservo e, a lato, vedo Paolo, uno dei fratelli che prova a cantare per non soccombere alla calura di luglio e agosto, ipnotizzato dal girotondo delle coppie di cavalli e muli che pestano le messi ammassate nell’aia.
Gira e rigira da destra a sinistra, da sinistra a destra, poche ore di sonno, un caldo cocente e nella testa scorre un fiume in piena con le ginocchia che tendono a piegarsi. Con l’altro fratello, in attesa del nostro turno, ci tenevamo al bordo con il tridente per rammucchiare gli steli che i quadrupedi macinavano con gli zoccoli ferrati facendoli schizzare. Paolo in possesso di un repertorio molto limitato, declamava:
“E cauria lu fierru, cauria lu fierru! Ca lu fierru quannu è cauru si stira!” (E riscalda il ferro, riscalda il ferro! Che il ferro quando è caldo si stira), facendo schioccare la frusta. Parole vecchie di secoli per dare slancio ai garretti degli animali quando il timbro non si smorzava in gola.
Ed ecco Paolo che quasi biascicava, mollare frusta e corde delle cavezze e saltare nell’aia come un grillo impazzito, le mani strette su una gamba dei pantaloni vicino all’inguine. Che diavolo gli succedeva! Andare in suo aiuto? A fare cosa? Chiedere il perché? Figurarsi! Saltava, il viso acceso, un misto di rabbia e terrore. I quadrupedi, indifferenti, ne approfittavano infilando il muso tra gli steli per arrivare alle granaglie.
Quando finalmente riuscì a bloccare qualcosa, con una mano slacciò la cintura dei pantaloni. Io e Turi osservavamo piuttosto curiosi. Le brache in giù, un gongilo, sorta di piccolo rettile prima nascosto tra gli steli, constatato che il pericolo di finire sotto gli zoccoli dei quadrupedi era reale, aveva creduto opportuno trovare rifugio nel buio del pantalone di Paolo arrampicandosi fino alla zona di sicurezza: l’inguine e il suo inquilino di diritto. La sensazione di un corpo estraneo sconosciuto che arrampicandosi si apprestava a invadere la postazione dell’organo più stimato, non era proprio piacevole.
Con Turi ci scambiammo uno sguardo stringendo le labbra. Pericolo scampato. Stanchezza e sonnolenza svanite, il girotondo nuovamente al via.
Ma le coccinelle non mi danno tregua. Eccone una ancora piccola. Quando schiude la corazza e apre le alette per il volo, io le affido la massa eterea di altri ricordi che adagia sul prato di immagini vecchie di decenni:
Noto (SR). Cinema Esperia: In un’atmosfera di raccoglimento dove alle parole faceva posto la magia dell’energia comune che saturava l’ambiente della grande sala cinematografica, sullo schermo in bianco e nero, scorreva l’odissea di un ingegnere del Sol Levante. Emigrante, era approdato da chi aveva distrutto Hiroshima e Nagasaki piegando lo spirito indomito del Samurai, annichilito davanti a una catastrofe apocalittica, sganciata dalla mano dell’uomo, il peggiore dei mostri “a sua immagine e somiglianza”.
Trasportava un peso: la consapevolezza di dovere accettare chi contestava al globo il diritto di guida del futuro. Il travaglio quotidiano tra diffidenze ed emarginazioni, glielo alleggeriva la consorte, personalità di spessore del nuovo mondo. L’ingegnere non sapeva ma col tempo intuì che anche per lui si avvicinava la fine: era rimasto vittima.
Profilandosi con successo, aveva voluto dimenticare le proprie radici, provato a riscattarsi per una colpa che non aveva commesso e ora si trovava irrimediabilmente spinto verso le origini. Quasi un’ossessione che la compagna provava a non fare travasare. Inutile!
Fu così che lei alla fine accettò di accompagnarlo nel paese natale lasciandolo in raccolta davanti alle lapidi di chi lo aveva messo al mondo. In meditazione, al suo spirito pervenne l’invito inequivocabile del Budda che annunciava la sua partenza prossima. Gli occhi riaperti si trovò accanto quella pace agognata, compagna del suo ultimo sentiero.
Chissà se il bisogno di immergermi in questo passato non sia una sensazione analoga! Vorrei fermarla. Me lo impedisce un’altra coccinella. Minuscola, schizzata per il mio razzolare, la corazza verde picchiettata di nero, cade in malo modo al suolo e si tiene immobile. La credo morta e la osservo. Un lampo, si raddrizza, apre le alette pronta a spiccare il volo. Con i miei occhi depongo sul suo dorso un’amorevole scappellotto.
La generosa giumenta saura al carro si autogestiva e sincronizzava le sonagliere del sottogola agli zoccoli che battevano l’asfalto pianeggiante, in discesa o salita. Ero ancora un lumachino di cinque, sei anni e sedevo su un vello di montone nero, tra mio padre che teneva le redini e mia madre. Il viaggio per e dalla città, durava oltre tre ore. Interminabili se costretto ad ascoltare i discorsi dei grandi o provando a scorgere qualcosa d’interessante oltre i muri dei prati.
I loro argomenti in pausa, era il momento di farsi vivo, estrarre magari quel motivetto del giovane carrettiere che terminava in: “la vicciaredda ri mo matri” (la vecchietta di mia madre).
Lo tiravo fuori a proposito, non certo per tacciare mia madre di vecchiaia. Nedda faceva l’offesa: “Ma che mi dici vecchia?”
Io sorridevo sotto i baffi e attendevo.
Come erano benvenuti quel palmo che sfiorava la mia nuca scorrendo verso l’alto e il lieve sorriso sulle labbra di mio padre. Ero felice! Quegli esseri erano miei e io gli appartenevo con gli altri sei. Allo stesso modo, quando si tratta di salute, sapere come ottenere la prescrizione del Viagra online può sembrare complesso, ma oggi è più semplice che mai. Puoi ottenere una prescrizione utilizzando i servizi di telemedicina, che ti permettono di avere una consultazione online con uno specialista autorizzato. E se sei interessato, puoi facilmente acquistare Viagra Generico su questo sito, rendendo il processo discreto e conveniente.
Non esistevano desideri e sogni inappagati, non sentivo alcuna mancanza. Ero ricco! L’universo era mio. Quante volte avrò desiderato quella mano ritornare a posarsi sulla mia nuca imbiancata, ora che non ho più nulla di mio!
S. C. Magro
Giugno 2023