Manfredi ed Eliane hanno iniziato ad annusarsi e partono per un fine settimana in una capanna di montagna dello Hütliberg (La montagna cappellino) che domina Zurigo.
Decidono di recidere ogni contatto con il mondo delle telecomunicazioni e spengono i cellulari eternamente pronti a farsi vivi.
48 ore circa, durante le quali accade un evento molto strano.
1. Un punch per favore
Piuttosto annoiata, in cerca di distrazioni, restava appollaiata sullo sgabello, la mini sempre più mini per due belle gambe che cavalcioni creano sempre un certo effetto, centellinando il “forte” preparato su misura: un miscuglio infernale.
Il fracasso e la confusione, saturavano come di dovere il locale “cool”. In quella bolgia, ogni movimento era battersi senza “machete” contro una giungla di corpi, braccia, chignons, seni flaccidi, chiappe super calibrate, stiletti che minacciavano di bucarti il metatarso, aliti acidi, puzzolenti di carie o di ristagni dello stomaco.
Indecisa se trattenersi, si era girata verso l’ingresso e, per uno di quei fenomeni pilotati da qualche diavoletto saltellante invisibile sulle teste dei convitati, l’aveva scorto giusto prima di lasciarsi inghiottire dai marosi dopo il tuffo dallo scalino. D’acchito, lo stimò un bel tipo anche se un po’ smarrito. Per non perderlo di vista, impegnato a guadagnare qualche centimetro quadrato di spazio, lei si issò poggiando una mano sullo sgabello accanto, provvidenzialmente libero.
In equilibrio si sollevò ancor più sulla caviglia e, visto che l’altro sembrava avesse incrociato le sue onde ottiche gestite dal bafometto burlone, con due dita agli angoli della bocca emise il fischio del pastore rendendosi bersaglio di centinaia di dardi ottici e facendogli segno di avvicinarsi.
A un tizio convinto di esser stato interpellato e che si accingeva a prendere posto, prima col viso truce e poi con un sorriso melenso, disse: “Non era per te mio caro”, lasciandolo di stucco.
L’invitato, come un ariete che va all’attacco o in diagonale come una trota, provava ad avanzare verso il bar. Un’impresa con il rischio di annegare tra i corpi di quella massa di “profughi”. Una massa che, osservata dall’alto, somigliava a uno stagno intasato di anguille ubriache, piantate nella melma, a caccia del resto di ossigeno inquinato e sommerso da una marea acustica.
Stava per abbandonare ma, ormai a mezza strada, decise di proseguire.
«Grazie! Gentile da parte tua.»
«Segga pure. Dà sempre del tu per iniziare? Cos’ha capito?»
«Beh, scusa. Credevo m’invitassi.»
«E persiste anche… »
Manfredi si tacque. Insomma mica era cretino. Che la tipa non avesse le viti ben strette? Ce n’erano tante in giro. Se non fosse proprio perché non ci stava altro…, però quella era più che carina. Poteva almeno riposare gli occhi su un bel viso, due labbra sensuali e più in basso…
«Un punch», raccomandò al garçon in camicia bianca e papillon nero mentre sfrecciava da una punta all’altra del bancone, «all’arancia e con abbastanza rum. Grazie.», gli gridò ancora dietro.
Lo starnuto riuscì a moderarlo nel moccichino di carta.
«Sei anche una tanica di batteri.»
«Scusi se…» guadagnando posa, «adesso però è lei a darmi del tu.»
«Devo pur rifarmi. Ho ancora un punto da recuperare.»
«Ma sentila un po’. Ecco perché lo sgabello restava libero.»
Lo guardò tra il serio e il canzonatorio e osservando il punch fumante e odoroso servito:
«Ne porti uno anche a me. Non così forte..., anzi più forte. Devo rafforzare le difese immunitarie.»
Tornò a fissarlo.
«Tiens (in francese)! Vuoi sempre cambiare posto? Alcuni ospiti levano il campo.»
«No! Adesso rimango proprio per dispetto.»
Lei rise e, come fosse da tempo in confidenza, allungò la mano coprendo il dorso della sua. Poi in tono bonario corrugando la fronte e inclinando il capo:
«Sai… mi piaci.»
Manfredi si sentì spiazzato anche a causa di quel maledetto raffreddore che gli pizzicava nella gola e nel naso tanto da fare partire la seconda fucilata, accompagnata da una robusta raffica di batteri agguerriti, a stento schermati dalla mano sfilata velocemente. Alcuni dei presenti lo guardarono sospettosi di trovarsi vicini a un untore.
«La prossima volta non dovrò dimenticare parapioggia o mascherina. Proprio qui dovevi venire ad atterrare?»
«Me ne vado.», facendo per alzarsi.
«Ormai il danno è fatto. Rimani.»
Il tono era conciliante e lo sguardo malioso e furbastro.
Arrivò il punch anche per lei.
«È con doppio rum.», fece il barman.
«Ottimo… Salute. Psyche!»
«Piacere, Man…fredi!… Psiche con la ipsilon o con la i?»
«Né l’una né l’altra.», sbottando a ridere.
La guardò con quegli occhi quasi lacrimosi.
«Ti fotti di me?»
«Lo faccio sempre con chi mi è simpatico per vedere dove posso arrivare. Ma dai, visto che stai con un piede nella fossa… Eliane! Salute!», alzando il boccalino del punch.
Sorseggiarono.
«Piede nella fossa… Stronza! Cominci a interessarmi.»
«Anche? Ce ne hai messo del tempo.»
«Ma sei sempre così sfacciata?»
«Uhm… forse. In ogni caso ho deciso di uscire dal locale sottobraccio con te.»
«E se io rifiuto?»
«Provaci. Farai la figuraccia dell’amante cornuto.»
Manfredi era più basito che divertito. Gli sfuggì solo quel luogo comune siciliano che imbelletta una vasta collezione di predicati e commenti.
«Minchia!»
«A vossia!», fece eco Eliane, ridendo come una matta e contagiandolo.
«Ehi, siciliana?»
«No, e tu?»
«Nemmeno!», e giù a sghignazzare.
Uscirono sottobraccio. Sentendo i seni di lei liberi sotto la blusa, premere contro il suo braccio mentre si districavano, la calca diluita, lui si chiese se una volta fuori sarebbe stato lo stesso.
Non lo fu, ma era stato sufficiente per svegliare “Argo” e fargli alzare la testa vigorosa. Eliane, uno sguardo “involontario” verso il basso mentre lui con la mano nella tasca dei pantaloni provava a far posto a testa e collo del guardiano, rise.
«Cos’hai da ridere?»
«Nulla di particolare. Dovevi proprio essere malconcio?»
«Altrimenti?»
«Avremmo fatto una bella passeggiata lungo il lago o visitata un’esposizione di pittura o meglio e se esistesse, gli affreschi di una chiesa aperta nelle ore vespertine.»
«Lungo il lago sì, ma non parlarmi di arte, di musei o affreschi.»
«Non ti piace il nudo?»
«Sì. Ma non nei musei, né nelle chiese. Fortuna poi che chiese di quel tipo nella puritana e riformata Zurigo facciano difetto.»
«Eppure sono i luoghi dove il nudo, presentato con arte e malizia “nonchalante” ma subdola, abbonda senza parlare dell’effetto delle luci serali e dell’atmosfera di raccoglimento.»
Preso in castagna, passò al contrattacco:
«Non ci avevo pensato. Tendi al misticismo? Sono piuttosto ancorato al naturale.»
«Ah! Ah! Ma è meno interessante. Il naturale appartiene al settore operativo, non mentale. In ogni caso, uscito sottobraccio, senza opporre resistenza, adesso puoi andartene dalla tua.»
«Dici? E se non ci fosse una “tua”?»
«Andrai altrove.»
«Non con te?»
Eliane rimase un attimo sopra pensiero.
«Chissà se hai la pelle abbastanza dura per una come me. Potresti restarci secco. Non sono propensa a un sexcidio per collasso cardiaco. Con il respiro corto potrebbe esserti fatale.»
«Sono pronto a immolarmi.»
«Ma io non ho la minima intenzione di scrivere un nome nel martirologio. Preferisco torturare chi sopravvive alle mie sevizie.»
«Di che genere?»
«Rimettiti in forma e se la cosa t’incuriosisce, venerdì prossimo a un tavolo dello “Zeughauskeller” non prima delle otto di sera. Ciao.», si congedò con un buffetto sulla guancia.
Manfredi ebbe appena il tempo di un proprio “ciao” che lei s’infilava già nel taxi casualmente di passaggio e spariva.
«Oh bella questa! Non è che mi dispiaccia ma ho la sensazione di essere il coniglio e lei la volpe. Attento a non rimetterci la pelliccia e finire arrosto.», considerò. «Però, potere palpare quelle curve e restarci preso, altro che…», con l’acquolina in bocca, si fa per dire, o leccandosi i baffi, mentre si avviava verso casa.
2. Zeughauskeller
Quello strano raffreddore la sera si manifestava più intenso con membra indolenzite e apatia. Nemmeno voglia di leggere o di guardare la tv. Il telecomando scorreva tutti i canali disponibili e una volta al terminale ricominciava.
Squillò il cellulare in anonimo:
«I soliti rompiscatole.», il dito gli scivolò sul sinottico verde invece di bloccare.
«Allora, in casa sano e salvo?»
«Ma guarda un po’!», riconoscendo la voce. «Come fai ad avere il numero?»
«Sei tu che me l’hai dato?»
«Ma quando?»
«Pensaci. Tanto fa lo stesso! Visto che stavi semidistrutto, mi sono venuti dei rimorsi.»
«Tipo?»
«Coccolarti un poco, prepararti un brodino, aggiustarti coperte e lenzuola o piumino sotto il mento, darti il bacino della buona notte dopo averti raccontato di Cappuccetto rosso.»
«E tu chi saresti, la befana sdentata col naso adunco?»
«Screanzato! Sono la lupacchiotta impietosita da un pecorone malandato.», e riattaccò.
Manfredi provò a scovare il numero. Njet! Come aveva fatto lei ad avere il suo?
La settimana trascorse per il giovane senza troppi scossoni, adoperandosi ad allontanare una volta per tutte i postumi del recente malessere. Eliane gli era venuta in mente senza prendere possesso dei suoi orizzonti. Il venerdì sera, tra colleghi di lavoro e non, al pub per la birra di rito, si ricordò di lei.
Dieci minuti dopo le otto, era allo “Zeughauskeller” di Parade-Platz. Entrando fu quasi travolto da un “sommelier” che sul palmo della mano protetto da un tovagliolo, districandosi con arte al passo di granatiere, trasportava un vassoio d’acciaio con una montagna di salsicce, lardo, cosciotto, fagiolini e patate fumanti, e si diede alla ricerca del tavolo di Eliane.
Girò, rigirò, guardò. Il locale era saturo di ogni tipo di avventore, dal gessino in tuta di lavoro, al barbone o simile, alla casalinga con ancora indosso il grembiule, ai giovani pronti a tuffarsi su ciò che una volta era di un suino, ad artigiani e professionisti impegnati con boccali di birra che il personale sostituiva con solerzia tracciando sbarre verticali, tagliate da una linea obliqua al quinto rilancio.
Di Eliane, nemmeno l’ombra. Pensava già essere stato bidonato quando un pizzico velenoso alla natica lo fece saltare in aria.
Rosso di rabbia, pronto a mollare una sbafera, si gira e chi lo osserva con uno sguardo di sfida? Eliane!
«Ehi ma che diavolo ti prende?»
«Mi stai davanti da cinque minuti. Constatato che le tue natiche non hanno nulla di particolare, ti ho invitato a mostrare il lato opposto. Una befana dal naso adunco ignora le carezze.»
«Per poco non mi staccavi un pezzo del gluteo.»
«Cala le brache che controllo.»
Erano alle solite, meglio dargliela vinta.
Si massaggiò la natica mentre prendeva posto.
«Sembra che non conosca le buone maniere. Un baciotto sulla guancia non farebbe al caso? Vi ho plasmato una bella quantità di “Louis Widmer” per farti rendere conto di ciò che significhi per me.»
«Scusa non osavo…», andando a baciarla.
Della pomata anti rughe nemmeno la lontana traccia su quella pelle fresca, vellutata.
Lei gli prese il mento tra le dita e, una volta vicino, gli depose sulle labbra un bacino premuto più del normale.
«Che dici ne è valsa la pena?»
«Oh sì! Possiamo continuare?», rilanciò Manfredi.
«Dimenticato il pizzicotto? … No! Non è corretto sostituire il piatto forte con l’antipasto.»
«Beccata da rapace, altro che pizzicotto. »
C’era poco da fare. Era lei che dettava legge.
«Sei un’abituale?»
«Saltuaria. Mi piace l’ambiente. Con tanto movimento e con il personale sempre disponibile. Sembra non lasciarsi stressare dalla confusione.»
«Non è certo il locale per una cena intima, al lume di candela.»
«La chiami intimità quella? Proprio in quei locali non ti perdono d’occhio un secondo.»
Finito il pasto cozzarono ancora una volta i boccali per l’ultimo brindisi.
«A che piano abiti?», gli chiese.
«Terzo piano. Perché?»
«L’immobile è di fronte a quello mio.»
«Nooo!»
«Siii! Anche il mio studio è al terzo piano. Per conferma stasera quando rientri fatti vivo alla finestra.»
Ecco che metteva le mani avanti. Insomma non era la solita anaconda pronta a strozzarti appena ti scorge. Questa più accorta ed esplicita, era più pericolosa.
Quando fu il momento di pagare:
«Ognuno per sé. Sia ben chiaro. Né sono disposta a stare sempre sotto.»
«In quanto a posizione preferisco restare io sotto.»
«E te pareva! Troppo comodo. E se ti opponi finiremo magari al suolo in malo modo.»
«Provare per vedere.»
«Al momento opportuno. A proposito, ti andrebbe un fine settimana in una capanna con fieno morbido per materasso?»
«Eh? Mai pensato! Sotto gli sguardi delle mucche?»
«Non temere! Non sono gelose, non sei un toro e non ce ne stanno. Sai l’odore del fieno è unico. Naturalmente il sacco a pelo è indispensabile. Ne hai uno?»
«No. Non mi è mai servito.»
«Procuratene. Anche scarponi e jeans e il prossimo fine settimana prendiamo un giorno libero in più e lo passiamo tra i boschi dello Hüetliberg. Riservo il posto per la notte e mi occupo delle provviste.»
Non abitavano distante e percorsero i mille a duemila metri sottobraccio, in allegria sostenuta dalla birra.
«Quando sei pronto, spegni e accendi la luce tre volte. Io ti risponderò con lo stesso segnale. Ci daremo così la buona notte. Adesso un bacio non guasta.»
Fu un bacio di quelli…
«Ci vediamo in settimana?»
«Non credo. Troppo da fare.»
«Fammi sapere come devo organizzarmi.»
«Ti terrò informato. Andremo con la ferrovia e procederemo a piedi. Tieniti in forma. Ti sarà d’aiuto. Ciao.»
Pronto per infilarsi nel letto, Manfredi andò alla finestra che dava sul balcone, scostò le tende, osservò l’immobile di fronte. Al terzo piano era tutto buio.
Premette l’interruttore, spense, riaccese, due, tre volte e attese.
Dalla parete opposta un vano riempì di luce una figura femminile. La sequenza ultimata, Eliane si avvicinò al suo di davanzale, lasciò scivolare al suolo l’accappatoio, gl’inviò un bacio aereo, agitò le braccia in un saluto e fece scorrere lentamente le mani sul corpo prima di sparire nel buio.
A Manfredi mancò il fiato. Si morse le labbra.
3. Si parte
«Sei veramente il classico cittadino che non tocca l’acqua se pensa che sia fredda.»
«Perché ?»
«Me ne dai l’impressione. Quando hai messo piede in un prato a rincorrere grilli e farfalle?»
Provò a ricordare… Mai!
I genitori non l’avevano mai condotto in campagna. Al massimo al parco giochi e allo scivolo di quartiere e anche lì doveva stare attento a non sporcarsi.
Mai incontrata una mucca dal vero, una capra o altro a parte una o due visite allo zoo con la scuola.
«Sinceramente non ricordo.»
«Si vede. Dovrò farti da balia.»
«Se lo trovi impegnativo sei ancora in tempo ad andare da sola o a rinunciarvi.»
«Nella mia logica non c’è rinuncia. Stai lievitando e non ammetto che finisca in un forno estraneo.»
Manfredi dovette confermarle chiarezza e sincerità. Un po’ spinosa ma era disposto a lasciarsi infilzare per arrivare al contenuto.
«Preferisci Manfrè o Fredy?»
«Quale ti riesce più semplice?»
«A Manfrèèèè! se hai rotto. Fredy quando fai il bravo.»
«Me ne ricorderò.»
«E da questo momento cellulari spenti.»
«Scusa, qualcuno potrebbe preoccuparsi.»
«Lascia che si preoccupino. Non cambia il corso della storia. Siamo nati con il cellulare appeso a colliere o all’ombelico? Ma per milioni di anni come hanno fatto quelli che non ne avevano?»
Lui non ci aveva mai pensato. Senza quel cosino pronto a segnalare ogni stupidità, ogni cinguettio, si sentiva orfano.
«Ma se hanno bisogno di noi?»
«Perché hai partorienti da assistere? Sei il solo ostetrico per casi incestuosi? Si rivolgeranno altrove.»
Ebbe la sensazione di avere accettato l’invito senza troppo riflettere. Curioso sempre più di vedere come sarebbe andata a finire, si allineò.
Non li accolse una baita ma una capanna dei guardiacaccia adibita a fienile e a rifugio di fortuna. La luce serale l’avrebbe fornita un lume a petrolio, un bidoncino era pieno oltre a metà di combustibile, in una scatola lo stoppino di ricambio. Fuori, l’acqua colava lentamente da un tubo in una vecchia vasca da bagno, e scorreva a rigagnoli che si perdevano nel suolo; in un angolo un po’ discosto fornace a legna.
Per il resto, a parte una panca, nessun mobile.
Manfredi si guardò intorno.
Abituato al comfort totale avvertì un profondo disagio, ebbe un nodo alla gola. Lei se ne accorse:
«Fredy, passami il sacco a pelo che lo sistemo.»
Lo svolse ne osservò le misure e lo pose a lato. Poi prese il suo e lo stese sul fieno che aveva ammonticchiato per dare forma anche al capezzale.
Manfredi osservava senza sapere che fare, ma lei aveva detto “Fredy”.
4. Lievitato
Seduti sulla panca lo “aiutò” a privarsi di ciò che indossava, lasciando che si adoperasse con lei.
«Con calma Fredy, abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Infilati nel mio sacco a pelo. Ti raggiungo.»
Non si fece pregare.
L’aria frizzante, pungeva. Nell’imbottita morbida ben presto si trovò bene. Il proprio sacco che Eliane aveva giusto messo da parte non li avrebbe contenuti nemmeno abbarbicati.
Con l’occhio avido seguiva lei che si liberava con grazia naturale delle suppellettili. La silhouette illuminata dalla fioca luce gialla del lume a petrolio regalava una cornice dorata all’anatomia della ragazza e lo trasportava in una dimensione che il sacco a pelo con lei dentro, sublimò.
«Spegniamo e abbandoniamoci alla notte.»
«Certo Fredy.»
«L’odore del fieno…, veramente gradevole.»
«E nel sonno ti avvolge e corrobora. Al risveglio sentirai che effetto, sarai come un cervo pronto a scattare.»
«Spero non svegliarmi con i palchi imbrigliati di steli.»
«Temi la fine di Atteone? Preferisco sia io a sbranarti.», dando seguito al proposito per l’ennesima volta.
La mezzanotte appena trascorsa si scatenarono gli elementi naturali: pioggia torrenziale che si rovesciava sul tetto della capanna, lampi e scoppi fragorosi, l’ululo e il fischio del vento con cigolii di rami strapazzati dalla furia della bufera.
A un mormorio seguì un occhio semiaperto, subitamente chiuso.
Con il braccio cingeva Eliane che accoccolata masticò “che bello”, incrociando le anatomie.
Al mattino si era calmata la bufera ma non la pioggia. Soffi d’aria fresca facevano capolino da qualche fessura e giravano per la capanna.
Ci volle lo stimolo dello stomaco vuoto per estrarli malvolentieri dal sacco.
«Dormito bene?»
«Non ci sono parole per dirlo. E tu?»
«Avrei voluto allungare notte ed eventi all’infinito.»
«Brrr!», fece lui. «Sento l’assenza dello scaldino.»
«E che hai lo scaldino di bisnonna a casa?»
«Ma no! Mi riferivo a quello del bisavolo, con due orecchie, le forme di due cedri e il fornello con i carboni scoppiettanti in basso.», in tono nostalgico.
«Cretino! E io che ti sto ad ascoltare.» stiracchiando le membra e aggiustandosi le chiome cascanti libere attorno al viso.
La pioggia velava la vista tra i fusti delle conifere e colava dai rami turgidi di pini e abeti. La osservavano quasi in silenzio, l’intimità avvolta nel grigio fumoso che copriva le vallati sottostanti come esalasse dal suolo, nascondendole all’occhio.
Verso mezzogiorno il cielo apparve terso e il sole inondò il mondo circostante svegliandoli dal letargo che aveva accomunato i loro respiri.
Seduti, le braccia incrociate sulle spalle, alle parole lette nelle pupille, labbra e lingue risposero con un bacio voluttuoso.
«Fredy, rischiamo di compromettere l’escursione sul sentiero dei pianeti.»
«Dai Eliane, sono curioso di scoprirli nonostante piedi e polpacci reclamino.»
«Sei sempre vissuto nella bambagia.»
«Comincio ad apprezzare il nuovo.»
«Grazie anche al mio “savoir faire”.», civettuola.
«Come quello del sagrestano con il cero acceso.», mentre guarda nello zaino ridendo sotto i baffi.
«Eh? E che c’entra?», le mani ai fianchi, …poi «Ma che stronzo! Ti metto in quarantena.»
«Come in quaresima? Dopo sì che suoneremo la campana!», puntando l’indice sul naso di lei che si ritrae.
«Senti la linguaccia dell’impacciato del bar.»
«Mi rifaccio. L’hai scrostata bene. Ti piace la lingua?»
Eliane risoluta, lo tirò a sé e se lo appiccicò alle labbra.
«Vedremo come si esprimerà stasera.»
«Ti farà sentire al settimo cielo!», con la lingua appuntita tra le labbra.
Il palmo di una mano sondò se il suo collo fosse ben piantato.
«Ehi, sei anche manesca!», lisciandosi la mascella.
«Lo meriti.»
Sei chilometri, il sentiero costellato dai pianeti del sistema solare. Dodici tra andata a ritorno. Portare con sé qualche provvista di cibo e acqua ne valse la pena.
«Ti rendi conto che ogni metro calpestato corrisponde a un milione di chilometri nel sistema solare?»
«Una constatazione che lasciata cadere là, risulta banale. Riflettendo, rimani di stucco. Immagina di essere un Gargantua megagalattico che in pochi passi si sposta da un pianeta all’altro.»
«Chissà se formichine e insetti pensino in modo analogo rendendosi conto delle nostre dimensioni.»
«Non credo. Altrimenti non ci mancherebbero di rispetto annidandosi nel nostro corpo e pizzicandoci. Sarebbero il massimo dell’arroganza.»
«In quanto ad arroganza poi. Sappiamo di essere un nulla ma agiamo come fossimo il tutto universale.»
«Forse perché anche un granello di sabbia racchiude l’universo. Il granello però, al contrario di noi, non se ne rende conto.»
Avanzavano respirando a pieni polmoni, il sole, bucando il fogliame, li solleticava.
«Ti eri mai rappresentato questo fine settimana?»
«Manco lontanamente.»
«Cosa provi?»
«Sono mezzo disorientato. Forse è la prima volta che mi trovo tagliato fuori da ciò che, permettimi di chiamarlo civiltà. Sento l’assenza della sindrome del fare, dell’agire per agire, senza sapere poi dove va a sboccare.»
Erano quasi alla fine del cammino a ritroso. Fermi vicino al macigno del “Sole”, Eliane estrasse dallo zaino due salsicce crude bernesi, particolarmente saporite.
Masticando:
«E che ne dici dei macigni vaganti?»
Sorrise:
«M’incuriosiscono.»
«Per cosa?»
«Va bene se riposano su un pendio o a valle ma chi li ha spinti su, quelli che stanno sulle creste delle colline?»
«Si direbbe contro ogni logica.»
E anche quella notte fu una notte. Una di quelle quando Eliane avrebbe avuto voluto gridare trovando solo la forza di dire:
«Ah Manfré! Lasciami respirare. »
Prima che fosse lui a invocare:
«Pietà! », abbandonandosi alla mercé del sonno.
Nemmeno i morsi della fame erano riusciti a estrarli dal sacco. Quando finalmente lo fecero, si resero conto che gli strapazzi erotici inibivano il recupero delle risorse mentali e fisiche.
Sorbendo un buon caffè:
«Notti rare.»
«Da annali. »
«Ma che ti sei portate le pillole blu appresso?»
«Io?», versando altro caffè nel coperchio del termos.
«Ne desti l’impressione.», aggrottando le sopracciglia.
«Sono le tue. Occhi blu e capelli corvini, un eccellente afrodisiaco.»
«Addirittura?», ridendo. «Chiuderò gli occhi lasciandomi condurre per mano. Così ti risparmio.»
«Eh no! Buona scusa per darla al primo arrivato se mi allontano.»
Continuarono su questo tono quando Eliane:
«Che aspetto ho?», piazzandosi davanti.
«Scapigliata, trasandata, sexy, provocante.», scansionandola da testa a piedi.
«E io?»
«Sei più di là che di qua. Mostri i segni di una fatica sostenuta a oltranza.», prendendogli la punta del naso e scuotendola dolcemente.
«Lo puoi dire… Che ne pensi di provare la cucina del ristorante?»
«Allora muoviamoci!»
«Avrò l’occasione di osservare dall’alto il mondo sottostante.», aggiunse Fredy.
«Il formicaio a cui fa sfondo la grossa lingua delle acque del lago con la città ai margini.»
«Una lingua molto più grande della mia.»
«Ma non così criminale.»
«Non sei proprio un angelo.»
«Avresti voluto che lo fossi?»
A qualche decina di metri dalla baracca li raggiunse il lamento soffocato di una sirena. Forse un incendio. Strano che continuasse.
5. La cupola
Il piazzale antistante all’Utokulm era gremito. Non era una rarità se non fosse stato per i discorsi animati e la ressa per salire sulla torretta al punto che erano stati costretti a regolarne l’accesso.
Eliane e Manfredi non prestarono attenzione né alla calca, né alle mezze parole lasciate cadere nel nulla.
E le tante facce di chi ha la luna di traverso?
Erano e sarebbero in ogni caso onnipresenti. C’è gente che preferisce stressare i muscoli del viso per darsi un’aria truce da miliziano terrorista, piuttosto di rilassarli con un sorriso.
Li incuriosì un particolare insolito: nessuno metteva mano al cellulare e chi provava vi rinunciava stizzito, imprecando. Che fossero per questo quei musi lunghi?
Oh bella! Eppure l’antenna della rete mobile dei dintorni era proprio piantata sulla torre.
Manfredi d’istinto provò a mettere mano al suo. Vi rinunciò, perché era rimasto nello zaino dentro la capanna.
«Eliane hai il telefono mobile con te?»
«Sì, ma non voglio farmi rovinare le ore che ci rimangono.»
La fortuna sfacciata gli concesse al ristorante un tavolo in un angolo con la vista sulle vallate opposte alla città. Com’era rilassante sfiorare e sorvolare mentalmente gli alberi che degradavano.
Il giovane naufragava ubriaco, lontano dalla tela satura di edifici grigi, di fredde pareti di vetro, lampioni, cavi, insegne luminose; gente di corsa o in estasi su faccine e messaggi… Un mare caotico e ridicolo, cedeva il posto a uccelli e alle cime verdi cullate dalla brezza.
Il cameriere finalmente arrivato, gli dovette ripetere due volte l’invito a scegliere il pasto. Caduto dalle nuvole, impacciato, chiese a Eliane se avesse già scelto. Avrebbe preso la stessa cosa.
Eliane l’aveva osservato attenta, gli sorrise dal bordo superiore della cartella con le liste di cibi e bevande, e rivolta al cameriere:
«Sì, per due. »
L’altro via come un razzo:
«Grazie!», senza nemmeno chiedere cos’avesse ordinato.
«A te per il vino. Dove stavi a navigare?»
«Boh! Ero sommerso da una serie di sensazioni: l’ambiente, il paesaggio, le ore trascorse, la nostra intimità…»
«Cosa dell’intimità?»
«Come spiegarlo? Strattonato da messaggi inutili, invaso dalla pubblicità, in città appena libero dal lavoro vai al pub, svuoti bottiglie di birra o bicchieri di alcol, entri magari in una discoteca, ti contorci come una scimmia, rimorchi, ti lasci rimorchiare.»
«E mbeh?», aggiustandosi il tovagliolo.
«Un percorso abituale, una meccanica programmata, una routine per riempire le poche ore da vivere prima della notte…, qui è stato diverso. Due giorni… sì, due giorni nostri, vissuti bene. Non so per te…»
«Anche per me… Puoi però alleggerire il disagio della città se ami ciò che fai.»
Rifocillati, o meglio rimpinzati, e con orizzonti che il buon rosso rendeva gradevoli, spingendo, riuscirono a portarsi al parapetto da dove si godeva un’ampia vista su Zurigo.
Ma la città, inghiottita da una immensa nuvola grigia che non lasciava vedere a traverso e si estendeva fino al monte, non c’era, e quei tratti di strada di accesso e di uscita visibili erano quasi privi di traffico.
Aguzzando la vista, la nuvola si colorava ogni tanto di scuro presto assorbito e seguito da un lontano concerto. L’orecchio sembrava carpire un coro di voci simili a quelle che si levano dagli spalti degli stadi di calcio.
Alla capanna, zaini a spalla, appena fuori, a uno sguardo in giro seguì un lungo abbraccio di congedo dai luoghi.
Di buona lena raggiunsero la stazioncina.
Era chiusa. La biglietteria automatica inagibile.
Un foglio sull’ingresso avvertiva: “Per improvvise avarie il servizio è sospeso. Ci scusiamo di non poter dare indicazioni sul ripristino”.
«Ci aspetta una passeggiata imprevista.»
«Ce la fai?»
«Nessun problema fino al primo villaggio per un taxi.»
Accese finalmente il telefonino, osservò, nessuna copertura.
«Eliane non c’è campo. Ricordi quelli che provavano?»
«Non dirmi. Avrei attivato più tardi ma mi incuriosisci.»
Anche lei dovette arrendersi alla realtà.
In tanti li precedevano sul cammino di ritorno.
Avanzando, i lamenti delle sirene si facevano sempre più vivi, mischiandosi a ondate a quelli delle ambulanze e accompagnati da qualche botto sordo.
«Sarà scoppiata una rivoluzione o una guerra con uno dei cantoni limitrofi.», sghignazzando.
«Si direbbe. Oppure gli sportivi sfasciatutto.»
Entrati nel perimetro coperto dalla nebbia, restarono di stucco: nebbia bassa non ce ne stava.
Eliane d’istinto girò lo sguardo verso l’alto.
«Guarda Fredy!»
«Mai vista una cosa del genere. È come una cupola.»
«È ben peggio.», commentò un tizio seduto su una panca intento a tirare le stringhe degli scarponi.
«Eh?», fece Eliane sorpresa.
«Una cupola malefica.», proseguì l’altro. «Niente Internet, niente WLan, niente televisione o radio, niente semafori funzionanti. Mucchi di lamiere agli incroci e un sacco di feriti. Non parliamo poi degli ospedali e degli interventi chirurgici rimasti in sospeso. Qualcuno c’è rimasto. E tutti quegli ossessi della telefonia mobile? Chissà in quanti sono stati colti da infarto. La città è ritornata indietro di quasi cento anni. Funzionano soltanto i collegamenti su cavo se non sono intasati. Hanno dovuto mobilitare un corpo speciale dell’esercito.»
«Caspita!», fece Manfredi.
«Non si comunica nemmeno con le radio di campo. Polizia e protezione civile non sanno più da dove iniziare. Gli ordini sono trasmessi in bicicletta o a piedi.»
«A questo punto? Ci restano ancora le fumate dei pellerossa.», aggiunse Eliane incredula.
«In bici o a piedi è più facile evitare un blocco, un mucchio di rottami o un veicolo. Ovunque unità di crisi esse stesse in crisi, ché non sanno cosa fare. I supermercati con casse e scanner bloccati, all’apertura hanno dovuto chiudere. I negozi di quartiere a gestione manuale sono stati letteralmente presi d’assalto e svuotati.»
«Da quando è successo?»
«Inizio nella serata del venerdì con semafori e pannelli impazziti alle fermate dei trasporti pubblici. Ieri sera poi hanno instaurato un coprifuoco parziale.»
«Cooome?», chiesero i due in coro.
«Sì! Niente come. Alcuni quartieri sono sbarrati dalle venti alle sei del mattino. La Bahnhofstrasse e dintorni con negozi di lusso, banche e gioiellerie, di giorno sono presidiati e di notte sono zona rossa. Hanno ordine di tirare.»
«Manco fossimo in guerra!»
«Misure contro lo sciacallaggio.»
«Saremmo potuti rimanere dove eravamo.», commentò Manfredi. «Tu con la mania di spegnere i cellulari!», rivolto a Eliane in tono di rimprovero, che:
«Ah Manfrè! Io non ho visto antenne speciali tra le tue gambe.», lo fece arrossire. L’altro rise.
«Proviamo se ci sta un tassista.»
«Sei ritornato sulla luna?»
«La sua compagna ha ragione.», commentò il tizio. « Non ci sono matti talmente matti. A parte le ambulanze e i Piranha che pattugliano, i privati non rischiano.»
«E allora?», chiese Manfredi sconsolato.
«E allora mio caro ragazzo, zaino a spalla e affidiamoci alle gambe», concluse Eliane, «provando a non imbatterci in un eventuale coprifuoco.»
È sempre così. Sebbene avvertiti, l’impatto diretto con la realtà fu traumatico: carrozzerie sfasciate, alcune carbonizzate, altre ancora fumanti, ambulanze che strillavano, qualche cane randagio.
Rari passanti frettolosi che ogni due metri si giravano quasi avessero paura di essere seguiti, e all’improvviso ecco l’autoblindo dell’esercito che lanciava avvertimenti dall’altoparlante e con il soldato armato nella torretta.
Un’immagine spettrale.
I nostri avanzavano in trance, a più riprese costretti a raggirare un’area interdetta, circoscritta dai nastri di plastica bianco e rossi e pattugliata. Sovente, dietro la protezione in ferro battuto o dietro una saracinesca tirata giù, ma era domenica, la vetrina spaccata di un negozio, altrove una finestra frantumata. Era impressionante. Non se l’erano potuto immaginare.
Riguadagnarono in qualche modo casa dopo essere stati controllati più volte, evitando di poco il coprifuoco del quartiere.
Prima di dividersi, felici di essere stati risparmiati dagli eventi, si diedero appuntamento per il prossimo incontro.
Dentro sembrava tutto in ordine. Però, a parte la corrente elettrica e l’approvvigionamento idrico, televisione, Internet e domotica erano andate a farsi benedire.
Manfredi, quasi rinfrancato, si ricordò del segnale di saluto convenuto prima dell’escursione. Chissà.
Azionò tre volte l’interruttore della corrente e rimase in attesa dietro l’ampia finestra che dava sul balcone.
Pochi minuti e la risposta non si fece attendere. Eliane con un asciugamani a turbante e un accappatoio rosso, apparve dietro la vetrata dirimpetto. L’accappatoio lasciato cadere al suolo, carezzandosi i seni, le mani le scivolarono poi lungo i fianchi.
Manfredi, una gran voglia, si mosse.
Sull’uscio, il botto di una fucilata lo paralizzò.
C’era il coprifuoco.
C. S. M.
Marzo 2020